Cultura di progetto e comunità professionali

Autore: Angelo Leva  | 1 July 2021

PMNotebook #PMExperience

Nel 2020 abbiamo condotto alcune interviste con cui abbiamo intercettato esigenze, riflessioni, spunti e suggerimenti da parte di tanti soggetti che già interagiscono o che potrebbero interagire con il PMI Northern Italy Chapter. Il progetto è stato svolto in prospettiva del venticinquesimo anniversario del PMI-NIC che cadrà quest’anno, il 2021. Il lavoro svolto ha permesso la raccolta di un'ottantina di interviste, i cui contenuti sono stati aggregati ed elaborati con il modello del Value Proposition Canvas e i cui risultati verranno condivisi e utilizzati per il piano di iniziative future del NIC.

L’obiettivo dell’intervista è quello di conoscere il rapporto dell’intervistato con l’esperienza di progetto nella sua azienda e di conoscere il suo eventuale rapporto con le comunità professionali che si occupano di project management come il PMI. Abbiamo quindi individuato alcune figure professionali significative. La prima persona intervistata è il responsabile delle Risorse Umane di un’azienda chimica multinazionale tedesca con 120 mila dipendenti, 50 siti produttivi nel mondo, 200 filiali, con clienti in 170 paesi e che fornisce 8000 diversi prodotti in vari settori dell’industria.

1. Quali sono le principali aree di attività di cui ti occupi nel tuo ruolo e in quale contesto organizzativo?
Sono stato per molti anni il responsabile HR Sud Europa di un’azienda azienda tedesca leader della chimica. Ho lasciato l’azienda per pensionamento due anni fa. Non conosco bene il PMI mi sono confrontato con un collega che opera attualmente come direttore delle operations in Italia, oltre che dirigere IT, acquisti logistica e sicurezza per avere anche un suo giudizio sull’esperienza di project management che abbiamo condiviso e lui mi ha ricordato in particolare l’esperienza che abbiamo chiamato MANUFACTURING COMMUNITY. Negli anni 2005-2010 venivamo da acquisizioni successive di diverse aziende e di stabilimenti, ognuno con il suo metodo di lavoro, la sua cultura e la sua concezione del lavoro e quindi ci si poneva il problema dell’integrazione. Oltre a questo per ragioni organizzative al Direttore Operations non riportavano gerarchicamente tutte le unità produttive e la sua figura da alcuni era considerata dai vari responsabili di stabilimento piuttosto come un primus inter pares, la questione che ci si poneva era quella di mettere insieme liberamente persone diverse senza storie comuni e senza un vincolo gerarchico. Allora abbiamo trovato in letteratura le community of practices e abbiamo capito che una strada possibile era di mettere insieme i bisogni comuni, creando una relazione a partire da interessi riconosciuti. I primi bisogni comuni individuati furono tre: costo dell’energia, trattamento dei rifiuti, valorizzazione dei talenti e crescita del capitale umano. La strada si è rivelata giusta, abbiamo creato dei gruppi di lavoro (MANUFACTURING COMMUNITY) a partire dai responsabili di stabilimento coinvolgendo quindi progressivamente i capi intermedi e i laureati. In questo modo e in breve tempo il progetto di MANUFACTURING COMMUNITY ha aiutato l’emergere di un soggetto, cioè un gruppo di Manager che ha condiviso la responsabilità di guidare l’intera realtà industriale presente sul territorio nazionale. Nacquero quindi scambi di best practices, circolarità di modelli idee ed esperienze, politiche comuni, sinergie, percorsi di carriera trasversali etc. Visto il successo, la casa madre ha voluto diffondere l’idea in altri paesi anche se spesso l’esperienza e’ stata colta e replicata come un modello organizzativo ma non come la nascita di un soggetto.

Stock photo of two people meeting with laptops and notes

Io ho sempre interpretato il mio ruolo di Responsabile di HR non solo come ruolo tradizionalmente di gestione e controllo bensì anche e soprattutto di spinta continua al cambiamento che percepivo vitale per l’ azienda. Quindi importante per me era di fare incontrare la persona con l’azienda, quindi persona con persone, in un dialogo aperto, libero, non strumentale, basato sulla fiducia reciproca. Dare libertà alle persone può significare esaltarne la responsabilità. Ad esempio una volta rilevammo in un’indagine di clima aziendale quanto la percezione di senso fosse un elemento di motivazione essenziale. Capitava ad esempio che gli impiegati amministrativi non conoscessero i nostri prodotti. Ci venne allora l’idea di chiedere alle diverse funzioni aziendali in maniera del tutto libera e volontaria di creare occasioni di incontro per raccontare ai colleghi del contenuto e dello scopo del proprio lavoro. Le forme di comunicazione e la partecipazione alle diverse iniziative erano assolutamente libere. Risposero tra gli altri l’ufficio legale, il controllo di gestione, la qualità. A volte capitava che fosse la prima volta nella vita che una persona venisse invitata a raccontare in pubblico di sé e del suo lavoro e questo aiutava la motivazione e la consapevolezza ed anche la relazione con i colleghi. Con diverse iniziative o progetti come questi abbiamo aiutato il cambiamento dell’azienda. Il tema dello scopo di una organizzazione, la sua declinazione in strategie e a sua volta la declinazione di queste in obiettivi aziendali ed individuali è stato per me un altro tema di lavoro decisivo. Utilizzavo per questo tutte le leve ed attività HR di cui ero responsabile: dalla amministrazione del personale, ai rapporti col sindacato, dalle politiche retributive ai piani di benefit e welfare aziendale, dalla formazione ai percorsi di sviluppo e di carriera etc. L’azienda crebbe molto per crescita organica e per acquisizioni e l’organizzazione alternò momenti di centralizzazione e decentramento. Le esperienze che vi ho raccontato sono riferibili all’Italia ma poi anche al Sud Europa in Spagna, Portogallo e Grecia.

2. Quali sono gli obiettivi che consideri prioritari nello svolgimento delle suddette attività?
Come già evidenziato , progettare e promuovere un contesto organizzativo che aiutasse la crescita della libertà delle persone unitamente alla assunzione di responsabilità, dando stimoli e occasioni di esperienza. Progettare esperienze di reverse mentoring, ad esempio, affiancando persone giovani ad altre ricche di esperienza, consente reciprocamente scambi di sensibilità e concezioni diverse del lavoro, ma anche condivisioni di competenze come l’abilità digitale, la conoscenza dei meccanismi organizzativi dell’azienda, l’esperienza manageriale.

3. Qual è l’esperienza che le risorse della tua organizzazione hanno/fanno rispetto ai progetti?
Gestire progetti fa parte in modo sempre più diffuso del lavoro di molti. Spesso accanto alle attività permanenti e tipiche di un ruolo aziendale alla persona viene richiesto per una parte del suo tempo e/o per un periodo limitato, anche di condurre o almeno di partecipare a dei progetti. Ad esempio il responsabile dell’amministrazione può seguire il progetto dell’inserimento di una nuova metodologia gestionale come SAP. A volte una persona viene staccata dalla sua responsabilità principale per seguire a tempo pieno un progetto. I progetti in una organizzazione possono avere uno specifico e rilevante contenuto tecnico ma altre volte contenuti organizzativi. Nelle aziende dove ho lavorato i progetti spaziavano da scelte ed implementazioni di sistemi IT a progetti di integrazione di aziende, da specifici progetti di ricerca e sviluppo all’implementazione di tecnologie o miglioramenti impiantistici e così via. Nel caso di progetti di maggiore complessità perché legati a variabili tra loro eterogenee di tipo economico, organizzativo, tecnico, sindacale, legale, il project leader si sceglieva tra le persone brillanti , capaci e con esperienza. Ma altre volte invece si sceglieva l’assegnazione di progetti come acceleratore di esperienza e di carriera. Ad esempio ad un giovane chimico od ingegnere appena inserito, veniva assegnato un primo compito di crescita in ruoli come tecnologo di processo, un ruolo che in genere il giovane gradiva perché molto coerente con il percorso di studi appena concluso. Ma quindi in un tempo molto breve gli venivano inoltre assegnati dei progetti da gestire, individuati a partire da reali necessità dell’azienda. Il progetto non aveva quindi solamente uno scopo formativo, ma doveva rispondere a problemi e necessità concrete e misurabili. Inoltre il progetto assegnato doveva avere un certo grado di difficoltà in modo che il giovane non potesse risolverlo unicamente con le sue conoscenze e la sua esperienza. Gli si dava ampia libertà di viaggiare tra i vari impianti sparsi per l’Italia e di contattare tutte le persone e le funzioni che avesse ritenuto necessarie per poter acquisire le conoscenze e l’esperienza utili a governare e a realizzare il suo progetto. Gli veniva assegnato un tutor di progetto (figura prevalentemente tecnica) e un tutor organizzativo con lo scopo di facilitare la conoscenza dell’organizzazione e delle relazioni. Con questi progetti (2 nei primi 2/3 anni di esperienza) il giovane laureato aveva la possibilità di costruire velocemente un network di conoscenze e collaborazioni che altrimenti sarebbe arrivato a possedere molto più lentamente. Tutto questo creava forte motivazione, agendo sulle motivazioni e sul senso del suo lavoro e agendo anche potentemente sulla retention ( in una comunità’ professionale aperta un giovane desideroso di acquisire esperienza e conoscenze, resta di solito molto volentieri).

Stock photo top view of camera, laptop, plant in pot, glasses and pen

4. Quali sono i bisogni che in questo ambito le risorse e l’organizzazione manifestano in modo più evidente?
In azienda eravamo naturalmente portati  a formare percorsi di crescita specialistici. Questo era un bene perché la cultura aziendale era improntata a rigore, fondata su metodologie e know-how tecnici molto sofisticati e all’avanguardia. Ma se  avessimo voluto formare anche manager o comunque almeno specialisti con una visione non ristretta dovevamo fare anche altro. Dovevamo esporre ad esperienze complete, anche con una certa fantasia organizzativa, dovevamo prendere conoscenza dove non l’avevamo in casa e renderla accessibile. Dovevamo valorizzare l’enorme patrimonio di conoscenza che avevamo in azienda, ma dovevamo anche aprirci a prospettive e punti di vista diversi. Da questa consapevolezza ha mosso l’ampio ricorso a consulenze esterne finalizzate a dotarci di quello che non potevamo generare da soli.

5. Come potrebbe aiutarti un chapter locale come il NIC, che fa riferimento a un’associazione professionale internazionale di PM, a svolgere il tuo lavoro e a crescere professionalmente? E come potrebbe aiutare le persone della tua organizzazione?
Il PMI, per il poco che lo conosco, mi appare come una comunità di specialisti. Quasi certamente,  per quanto vasta,  non raccoglie tutti quelli  che fanno i project manager nelle aziende. Anche perché, come si è detto, molti in azienda svolgono solo saltuariamente attività di conduzione di progetti. Ovviamente la professione di Project Manager a tempo pieno e  permanentemente svolta richiede anni di applicazione, metodologie rigorose, esperienze condivise. Da qui l’esigenza di scambio di esperienza, di avere  riferimenti, ma anche di appartenenza ed identità. Tutti aspetti che connotano una comunità professionale come la vostra . Permettetemi di citare ora una esperienza personale: la mia frequentazione delle comunità professionali esistenti in ambito HR é stata molto limitata nel tempo. Preferivo infatti la partecipazione ad ambiti manageriali più eterogenei e diversificati, da cui ritenevo di trarre più spunti creativi. La ritualità, la ripetitività dei temi e degli approcci che riscontravo in ambito HR mi sembrava a volte eccessiva e ridondante. Al contrario, contributi manageriali differenti erano per me fonte di ispirazione. Per questo ho privilegiato nel mio tempo speso esternamente all’azienda l’eterogeneità di situazioni formative  ed esperienziali. Questo naturalmente non mi impedì di coltivare ottime relazioni personali con colleghi  di HR  con scambi personali e professionali di valore.

Naturalmente questo non può e non vuole essere in alcun modo un giudizio su PMI  che ho già dichiarato di conoscere molto poco. Ma  mi pare che una domanda utile possa  essere questa: perché uno desidera frequentare una comunità professionale? Perché sente il bisogno di  un giudizio su di sé, sente il bisogno di alimentarsi e di confrontarsi e questo lo aiuta nella sua organizzazione, nel suo lavoro e anche come persona.  Ma se questo è vero, una comunità professionale per continuare a crescere ha bisogno almeno di tanto in tanto  di input, ha bisogno di punti di giudizio, di confronto con l’esterno. Persone che non necessariamente provengano dal mondo  dei project managers e che raccontino la loro esperienza possono forse aprire  prospettive interessanti. Sta poi all’esperienza del singolo project manager la valorizzazione ed il collegamento rispetto alle sue esigenze specifiche. Se quanto descritto già avviene chiedo scusa per il suggerimento inutile. Grazie per la pazienza

6. Come potresti aiutare il NIC a portare avanti la sua missione di comunità professionale?
Forse semplicemente condividendo la mia esperienza come ho fatto in questa intervista.