La punizione del leader situazionale

Storie di sport e di atleti viste dalla prospettiva di un Project Manager.

Autore: Giovanni Lastoria | 26 January 2023

No, no! Sembra il titolo di un film di Woody Allen, ma qui abbiamo deciso di parlare di sport e project management anche se il racconto di oggi ha un po’ del romantico, un po’ della commedia e purtroppo anche del drammatico, come nei film del grande regista.

L’aspetto di cui trattiamo oggi è per l’appunto quello della leadership situazionale. Questa teoria è stata sviluppata da Kenneth Blanchard e Paul Hersey. Il primo autore di più di 60 pubblicazioni su business e leadership, consulente e trainer. Il secondo è stato un esperto di scienze comportamentali, imprenditore e varie altre cose. La leadership situazionale è anche conosciuta come “Life-cycle theory”, “teoria del ciclo di vita” e il suono non è male nemmeno nella lingua italiana, trasmette quasi un senso di sicurezza, di comfort. Un po’ come dire “Ehi! Guarda che se la prendi dal verso giusto le cose non ti andranno proprio male!”. Dal verso giusto, però.

Man in a suit with a black and white checkered ball

E un po’ me li vedo questi due energici trentacinquenni o poco più, nell’America degli anni ’70 che rielaborano una precedente teoria di uno studio universitario, man mano migliorato negli anni da diversi studenti e accademici. L’obiettivo dello studio originale era quello di definire quale fosse lo stile di leadership migliore. Kenneth e Paul però ribaltano, almeno in parte, il concetto e presentano una nuova variante che prova invece ad identificare, non tanto lo stile migliore, quanto quello più efficace in una specifica situazione. In sostanza Kenneth Blanchard e Paul Hersey lavorano su tre elementi, i primi due legati al manager in questione che riguardano, il suo grado di orientamento al compito o obiettivo e il suo grado orientamento alle persone. Il terzo elemento identifica invece il livello di maturità (esperienza/autonomia), del team che il manager si trova a gestire. Secondo la teoria della leadership situazionale, un buon manager dovrebbe avere la capacità di trovare il giusto equilibrio tra questi tre elementi, riadattandolo ogni volta allo scenario in cui si trova ad operare. Con il corretto mix di queste tre componenti, un “vero” leader situazionale, dovrebbe essere in grado di trovare la formula migliore, per ottenere una gestione più efficace del proprio team e il raggiungimento degli obiettivi definiti. Il grafico che segue ci disegna visivamente il percorso netto di un autentico Leader situazionale

Il grafico che segue ci disegna visivamente il percorso netto di un autentico Leader situazionale

Come spesso succede in tutte quelle situazioni in cui interviene una componente umana, non esiste una formula perfetta, ma la migliore soluzione la si ottiene quando c’è una fluidità di comportamenti che interagiscono tra loro e soprattutto quando c’è la capacità di adattamento (e questa mi sembra di averla già sentita!)

Per farla breve alla fine, in base alla situazione in cui si opera, Blanchard e Hersey identificano quattro stili di leadership differenti :

  • Lo stile direttivo – facile intuire che si riferisca ad una persona decisamente orientata all’obiettivo, molto meno alle relazioni. Spesso è anche l’unica soluzione che puoi adottare quando hai un team con una maturità molto bassa che deve essere indirizzato su ruoli, attività, tempistiche e certamente controllo.
  • Lo stile supportivo – parliamo ancora di una persona principalmente orientata all’obiettivo che imposta ancora le attività e i tempi dei collaboratori, ma inizia a coinvolgerli per trasferire conoscenza ed esperienza.
  • Lo stile partecipativo – si riferisce al un leader fortemente orientato alle persone e meno al compito vero e proprio. Il team ha una buona maturità e riesce a gestire i compiti senza grosse interferenze da parte del leader che diventa un facilitatore, più che una guida.
  • Lo stile delegante – è un leader che ha la fortuna o la bravura di aver costruito un team responsabile, professionale, con notevole senso di appartenenza. Il leader deve solo dare indicazioni generali e può anche non essere presente.

Bene! Il mondo dello sport è pieno di leader che nella loro carriera o nelle loro imprese hanno agito in perfetta sintonia con uno o anche più di uno degli atteggiamenti descritti. Qualcuno è riuscito a cambiare e ad adattarsi a diverse situazioni che gli hanno permesso di misurarsi in tutti e quattro gli atteggiamenti definiti da Blanchard e Hersey e il personaggio di oggi è a mio avviso uno di questi. Eh! Però, mi tocca fare ammenda con me stesso, mi ero ripromesso di non trattare di calcio, ma man mano che mi addentravo nei dettagli e nelle caratteristiche del Leader Situazionale e di cosa e come lo stesso debba trasmettere sicurezza e competenze al proprio team, i miei riferimenti di sport e sportivi più o meno conosciuti, cadevano tutti come birilli, tranne uno. Un personaggio che ha sempre generato pareri opposti per diverse sue scelte di vita, ma che al tempo stesso ha sempre fatto convergere i pareri di tutti, se si parla dei suoi gesti tecnici e del suo modo di essere leader in campo. Mi riferisco a quel professionista che rispondeva al nome di Diego Armando Maradona. Buona parte di quello che Maradona è stato, nel bene e nel male, tutta la sua fama più o meno discussa, ha un inizio abbastanza preciso ed è legato al gesto magico che regalò a tutti gli appassionati e non, il 3 novembre 1985.

Siamo allo stadio S.Paolo di Napoli (oggi stadio Maradona) è una domenica e la squadra locale sta affrontando la Juventus. Siamo al minuto 70 circa di una partita tesa e decisamente non brillante. Il risultato è fermo sullo 0 a 0 e il giocatore del Napoli Bertoni, subisce un fallo all’interno dell’area di rigore juventina.

Tocca fare un fermo immagine, perché il contesto va inquadrato meglio, altrimenti diventa difficile trasmettere l’idea di come Diego Armando Maradona sia riuscito ad interpretare e adattare le sua capacità di leadership, nelle diverse situazioni in cui si è ritrovato ad operare. 

Maradona arriva a Napoli a 24 anni nel 1984, quindi poco più di un anno prima di quel 3 Novembre. Arriva da due stagioni discontinue al Barcellona dove è già una promessa a livello mondiale, ma infortuni, l’epatite e un intervento sciagurato di Goikoetxea, un giocatore ricordato principalmente proprio per l’infortunio a Maradona, non hanno permesso al talento di esplodere. Il Napoli lo acquista per 13 miliardi, cifra stratosferica per quei tempi e di cui la società non dispone. Diego è un fenomeno dentro e fuori dal campo e la città di Napoli è perfetta per portare all’estremo le sue caratteristiche, purtroppo però sia in un senso che nell’altro. La conferenza stampa di presentazione è già quasi un segnale premonitore di quanto accadrà seguito e visto a posteriori risulta ovviamente più facile da interpretare. Basta guardare lo sguardo di Diego Armando alla prima domanda rivolta al presidente del Napoli, da parte di un giornalista dal chiaro accento straniero. Maradona deve aver capito che c’era qualcosa di strano, ma succede tutto in maniera molto veloce, poi qui siamo a Napoli, sul palcoscenico che fu del grande Eduardo. Ci sono comparse che entrano ed escono dalla scena in continuazione, la lingua non gli è chiarissima, dalle facce intorno a lui si percepisce un entusiasmo enorme, ma quella domanda, con una risposta non risposta, deve avergli fatto pensare che forse non era proprio tutto così chiaro. Finché non entra in scena l’ennesimo commediante che risolve la situazione nel più tradizionale dei modi, pacca sulla spalla a Maradona e : “È cosa ‘e niente…Diego! Andiamo su che la gente ti aspetta!”. Il primo anno di Diego a Napoli è deludente, non rispetta le aspettative ne sue ne della squadra. Il secondo anno, proprio quel 1985, non inizia meglio, la squadra del Napoli è quarta ma ha vinto solo 3 partite su 8, risultati non impressionanti. Quella domenica arriva la Juventus che ha una rosa imbattibile, ha infatti sempre vinto ed è ovviamente in testa al campionato a punteggio pieno.

Bene, se conoscete almeno in parte la mentalità del posto, avrete intuito quindi che siamo in quella situazione in cui, “Si Diego, sei il migliore…” ma inizia ad esserci anche qualche “…e però, Diego!”.

Torniamo ora al minuto 70 di quella partita. Il pallone sta tagliando in diagonale tutta la metà campo della squadra ospite, destinato a toccare terra appena dentro l’area di rigore. Viene intercettata da Daniel Bertoni che ne accompagna il movimento, senza cambiarne la traiettoria. Bertoni prova a sfruttare il rimbalzo della sfera, per impostare una soluzione e andare a tiro, ma si trova di fronte un certo Gaetano Scirea che le soluzioni solitamente le trova e non le concede. Ne nasce un contatto, una gamba troppo alta e tesa, con Bertoni che si ritrova a terra. Il direttore di gara decide così per una punizione a due in area. La punizione a due in area è una casistica più spesso citata nei “regolamenti di giuoco” che nel gioco reale. Proteste dagli spalti e in campo, ma spetta al Capitano parlare con l’arbitro. Il buon Bruscolotti però non sa ancora di poter essere un giocatore campione d’Italia e di livello europeo e le sue proteste sono timide e nemmeno dirette, anzi si rivolge a Diego chiedendogli il perché di quella decisione. Stesso atteggiamento lo hanno gli altri giocatori, lamentele, proteste, non plateali, sembrano quasi rassegnati alla decisione. D’altra parte il Napoli era considerata ai tempi una squadra “provinciale”, quasi a dire che fosse corretto tenere un certo atteggiamento di sudditanza nei confronti delle squadre più blasonate. Ed è a questo punto che la leadership situazionale di Maradona si rivela per la prima volta in modo definitivo. Fino a quel momento Diego era solo un giocatore del Napoli, stava invece per diventare il punto di riferimento di un’intera comunità. Stava per prendere per mano i propri compagni, i quali al tempo non avevano la maturità adeguata al livello a cui Diego voleva portarli. Diego prende la palla, con quel suo sorriso arrogante e sornione, da chi sa che cosa sta per fare. Si avvia al punto di battuta. In quei pochi metri, utilizzando un perfetto stile di leadership direttiva, zittisce e sprona allo stesso tempo i suoi compagni, compreso il suo capitano. “Basta lamentarsi! Tranquilli, tanto gli faccio gol ugualmente!”. Diego posiziona il pallone, siamo a circa 16 metri dalla porta di Tacconi. Da regolamento dovrebbero esserci nove metri tra pallone e la barriera dei giocatori juventini, ma l’arbitro non riesce a tenerli a più di sei, sette metri.

In posizione di battuta c’è Eraldo Pecci, giocatore esperto e quasi un’icona del calcio italiano dei tempi. “Toccamela appena dietro!”. Diego è uno dei giocatori più forti del mondo, ma non è un mago. Deve aver pensato qualcosa del genere, Pecci. “Diego! Non puoi tirare, non c’è spazio!” ; “Tu toccamela indietro che gli faccio gol!”. I due si scambiano ancora un paio di battute sul tema, ma alla fine è Eraldo a cedere e a toccare la palla leggermente indietro, così come ha chiesto Diego ed è qui che viene scritta una delle più belle poesie del calcio giocato.

Maradona con un balzello porta la gamba destra leggermente indietro, in questo modo recupera un buon metro di quello spazio “rubato” dalla barriera juventina che nel frattempo è avanzata di almeno altri due. Il sinistro di Diego resta fermo, pronto per essere caricato, come se fosse l’ultimo colpo in canna rimasto per colpire una preda. E’ ancora la gamba destra che si posiziona esattamente a fianco della sfera, lì dove la teoria della tecnica calcistica vuole che stia.

Tocca al sinistro! Questo non si carica di sola potenza, ma di una sensibilità che consente al piede di toccare la sfera con quello che viene definito un colpo sotto. Un tocco morbido che colpisce la palla in un solo punto e le imprime una quantità di forza esatta per disegnare una curva, di cui matematicamente nessuno è riuscito a trovare la funzione risolutrice (sembra siano davvero stati fatti degli studi matematici in merito). Un po’ più forte e la palla avrebbe preso una direzione troppo alta, un po’ più piano e la palla sarebbe stata fermata dalla barriera. Per un attimo ci deve essere stato un silenzio irreale in campo, con tutti a fissare la traiettoria della sfera. Un po’ come quando ci capita di vedere una stella cadente, la visione dura un attimo, ma in quell’attimo si ha la sensazione che il tempo si dilati e quando finisce la scia si rimane un po’ frastornati, tipo: “Ma, l’ho vista davvero?!”. Tutti i giocatori sono immobili a guardare la palla, in molti hanno già intuito dove andrà a finire e per un secondo convivono, in campo, due sentimenti diversi: stupore e speranza per i giocatori del Napoli, timore e disperazione per i bianconeri. L’unico sereno e sicuro è Diego, perché ha già visto nella sua testa quale sarà la conclusione. La palla va nel sette e il Napoli batte l’invincibile Juventus.

Il web è pieno di pagine, video e interviste, solo dedicate a quei due secondi di storia del calcio. Quando il 25 novembre del 2020 Maradona ha lasciato questo mondo per andare a giocare tra le nuvole, la Juventus postò sul suo account Twitter il video di quella punizione, senza alcuna parola a commento.

Quello fu un vero momento di svolta per Maradona e per il Napoli. Quella punizione sancì la leadership di Diego non solo per quella situazione. Dopo quella partita il Napoli, infilò una serie di partite positive e Diego guidò i compagni ancora poco consapevoli e bisognosi di una guida diretta, a consolidare il terzo posto che consentì al Napoli di partecipare anche ad una competizione europea.

L’anno successivo con qualche innesto di esperienza e con un gruppo che stava crescendo, Diego si fece carico di tutta l’attenzione mediatica che si era generata attorno a lui e alla squadra. Contemporaneamente fece crescere una consapevolezza diversa in tutti i suoi compagni (Stile supportivo). Alcuni nomi nuovi iniziano ad essere sempre più presenti nella formazione dei partenopei, nomi che furono poi protagonisti nel decennio successivo e alcuni di loro per la storia del calcio italiano. Ciro Ferrara, De Napoli, Taglialatela. In questo contesto il Napoli diventa campione d’Italia, per la prima volta nella sua storia.

Nel biennio che segue la squadra è ormai consolidata, Diego è contornato di giocatori di ottimo livello, in parte arrivati da fuori, ma diversi maturati all’interno della società. Non ha più bisogno di imporre la propria leadership, anche al di fuori dal campo i suoi compagni sono ora in grado di gestire con professionalità le comunicazioni e le pressioni dei media. Diego può partecipare al gioco e inventare per sé e i suoi compagni, non è più costretto ad impostarlo in prima persona (Stile partecipativo). Il Napoli è nuovamente campione d’Italia e si impone anche a livello Europeo vincendo una coppa UEFA.

Negli ultimi due anni a Napoli arriva un certo Zola, Ferrara è diventato un punto di riferimento, inizia ad affacciarsi anche un certo Fabio Cannavaro. Il rapporto di Diego con la società non sta andando al meglio, la sua vita privata viene pubblicata in ogni minimo dettaglio, solo sul terreno di gioco, la fiducia e il rispetto, sono rimasti invariati tra lui e i suoi compagni di squadra. Diego si permette di saltare diversi allenamenti, ma è sempre pronto a dare il massimo che può e ad essere di supporto alla squadra, quando è in campo. Il livello di maturità raggiunto dal team è ormai quello internazionale e il suo ruolo di leader può tranquillamente passare a quello del delegante.

Illustration of Diego Armando Maradona

Si diceva all’inizio che la Situational Leadership è anche detta “Life cycle circle”, Diego Armando Maradona per sue scelte o per situazioni in cui si è trovato, non deve aver preso il suo ciclo sempre nel verso giusto. Pur avendo una mia opinione, non mi permetto di giudicare la vita privata di una persona. Risulta infatti facile e spesso anche comodo, cedere a questa tentazione. Quella di mettere alla mercé di tutti, aspetti della vita privata di una persona e spostare l’attenzione non più sulle sue capacità professionali, ma sul  come decide di vivere la propria vita. Quante persone ci sono tra noi, stimati e affidabili professionisti nel proprio campo, ma con modi di pensare o di vivere la propria vita che darebbero da pensare, perché non perfettamente allineati a quelli della maggior parte. Situazioni simili capitano spesso, nel piccolo, anche nei nostri contesti. Provate a pensare per un attimo di essere Maradona, arrivi dalle favelas ai più importanti campi di calcio mondiale. Sei un professionista e la cosa che più ti interessa è dare il massimo nel tuo lavoro, ciò che più di tutto ti appaga. Ad ogni partita ti prepari per dare il meglio, con i tuoi riti prima dell’inizio che ti servono a trovare la giusta concentrazione. Il riscaldamento, palleggiando con la sfera e le scarpette regolarmente non allacciate. L’odore dell’erba calpestata, mista a quello della terra e del cuoio del pallone che ti caricano ad ogni tocco della sfera (aspetti romantici che purtroppo i materiali innovativi hanno cancellato). Le azioni che già scorrono nella tua mente, quali gli avversari da evitare, quali quelli a puntare per un dribbling, gli sguardi d’intesa con i compagni, l’esultanza per il goal o la vittoria. Le sensazioni sane che ogni volta ti fanno ritornare alla prima gara importante. Poi c’è tutto il resto, appena esci di casa, giornalisti pronti a chiederti qualsiasi cosa. Fotografi che cercano di catturare le immagini più strane di te o dei tuoi cari, per forzare le più impensabili conclusioni. L’impossibilità di fare due passi da solo in città, perché non sei mai solo a Napoli per definizione, figurati se poi ti chiami Maradona. Non sai più se e quali  amici puoi definire tali, perché devi misurare ogni parola, potrebbero rivendersela per un minuto di notorietà. Tutto ciò fa un po’ parte di una certa natura umana, spesso quella mediocre che non aspetta altro che tu commetta un errore, quella che cerca sempre di sminuire il tuo operato, quella che si attacca ad aspetti che poco centrano con la tua professionalità, per buttarti giù. Come ti vesti, a chi frequenti, cose simili insomma.

Nella loro teoria Kenneth Blanchard e Paul Hersey ovviamente non potevano considerare anche questa componente, ma io una nuova dimensione che contempli il livello di mediocrità che il manager situazione deve affrontare, quasi quasi la andrei a considerare. Quante persone valide ci siamo persi come leader, perché nella loro professione sono stati in qualche modo affossati dalla dimensione della mediocrità. Quanta cultura, arte, imprese sportive abbiamo in meno perché il Situational Leader non ha retto alla dimensione di mediocrità. Molto spesso queste situazioni si verificano proprio quando sta per nascere un’idea innovativa, quando si vuol provare a cambiare un modo di pensare o di agire, quando arriva qualcuno a cui le cose riescono tutte con facilità…e a te no! Ecco, in questi casi la dimensione della mediocrità si genera quasi in autonomia ed è sempre molto difficile da contrastare. Per Diego Armando Maradona la dimensione della mediocrità ha avuto da subito un valore molto importante, ma questo non gli ha impedito di rimanere il professionista unico che si è sempre dimostrato, sul tappeto verde. È per questo motivo che credo sia stato un leader situazionale completo in campo. È per il fatto di aver resistito, a suo modo, a tutto quanto non riguardava la sua professione che ora possiamo ricordare e godere delle sue imprese e dei suoi gesti atletici, unici e probabilmente irripetibili. Tutto il resto per fortuna, verrà pian piano dimenticato.

 

Il video della punizione : (55) 1985 MARADONA Napoli 1 Juventus 0 Recontragolazo FULL HD - YouTube

Titolo del film : Diego Maradona – Regia: Asif Kapadia