Storie di sport e di atleti viste dalla prospettiva di un Project Manager.
Autore: Giovanni Lastoria | 16 March 2022
Diversi anni or sono ricevetti, così gratuitamente, un pugno nello stomaco pazzesco e da allora le cose non furono mai più le stesse.
Non si trattò di un vero colpo nel senso fisico del termine, si trattò ovviamente di un pugno nel suo significato metaforico, ma la sensazione che provocò in me fu molto vicina ad un impatto fisico per tutto quello che smosse al mio interno. Successe quando mi trovai a leggere la seguente frase:
“Bisogna battere gli avversari, certo. Ma prima è necessario disputare e vincere un’altra sfida.
La prima vittoria che propongo ai miei giocatori, e che mi pongo io stesso, è battere un nemico terribile, anche perché si nasconde e non lo vogliamo mai affrontare. E questo avversario sono i nostri limiti, i nostri difetti, le cose che non ci vengono bene, che non ci piacciono. Questa è la prima vittoria, se non si vince questa gara non c’è miglioramento, non c’è qualità”.
A pronunciarla fu una delle figure più in voga nel panorama sportivo italiano di quel periodo, parliamo degli anni ’90, un signore fuggito dall’Argentina oppressa dal regime militare di fine anni '70, a cui affidarono la guida di una sconosciuta nazionale italiana di pallavolo che lui riuscì a portare sul tetto del mondo, inutile aggiungere che sto parlando di Julio Velasco.
In quel periodo mi trovavo ad affrontare i miei primi progetti presso clienti e parallelamente ad allenare la selezione lombarda Under 21 di futsal, non c’erano molte fonti di ispirazione, internet era ancora di lì a venire e non era facile nemmeno trovare dei libri motivazionali, men che meno di mental coaching. Quel testo che credo si riferisse ad un’intervista rilasciata dallo stesso Velasco a qualche giornale o giù di lì, divenne il mio punto di riferimento, da cui trassi diversi spunti di riflessione che mi furono utili sia nella mia professione di Project Manager che nella mia carriera da allenatore e sportivo in genere.
Per questo quando, nei mesi scorsi, ho pensato a un progetto per THE HUB ho avuto in mente di sviluppare “Storie di sport e di atleti viste dalla prospettiva di un Project Manager”: una serie di articoli in cui mettere in relazione metodologie o aspetti del Project Management con il mondo dello sport.
Partendo dal fatto che ogni iniziativa o attività può essere vista come un progetto, proveremo, senza alcuna pretesa di divulgare nuove verità o teorie, ad esplorare discipline o attività legate al mondo sportivo, mettendole in relazione con il Project Management.
Ogni articolo affronterà una tematica di project management e andremo a scoprire come questa viene affrontata, più o meno consapevolmente, in un ambito sportivo.
E allora vedremo come si affrontano i rischi quando si è di fronte ad una parete di roccia, oppure come si gestiscono le risorse quando vuoi chiudere una maratona sotto le tre ore. Proveremo a capire che esistono PM Agile a loro insaputa o come il nostro fisico si adatta ad un ambiente non naturale come l’acqua. Leggeremo di persone che hanno provato a superare i loro limiti e non sempre hanno avuto delle “success story”, scriveremo di leader, di team e anche di feedback.
Mi piace iniziare questa serie partendo da una delle parole che con maggior frequenza si sente pronunciare in quest’ultimo periodo, la parola “resilienza”. Oltre ad essere stata usata e forse anche abusata in questi ultimi due anni, è anche parte di uno dei nostri principi di Project Management, dove si suppone che il buon PM sappia anche “Mostrare adattabilità e resilienza”.
In una delle guide del PMBOK la resilienza viene definita come “…la capacità di assorbire gli impatti e riprendersi rapidamente da una battuta d’arresto o un insuccesso”
Leggendo queste parole, mi viene immediata l’associazione del loro significato, con la storia di Kieran Behan.
Kieran è un ginnasta irlandese che ha partecipato alle olimpiadi di Londra 2012, senza qualificarsi a nessuna delle finali.
Ora, ai più questo potrebbe suonare strano, perché: “che cavolo di esempio di resilienza è uno che nemmeno arriva sul podio della sua specialità”. Lecito pensarlo, ma non mi soffermo oltre, perché è spesso proprio dalle storie di apparente insuccesso che si traggono gli insegnamenti migliori.
Bene, quindi chi è Kieran… è un bambino pieno di volontà che inizia da piccolo a praticare ginnastica artistica e ha un sogno. Sogno che si infrange contro il muro di una diagnosi medica devastante, quando ha solo 10 anni. Tumore ad una gamba! Per sua “fortuna” benigno, tuttavia l’operazione non fila via liscia e alcune complicazioni lo portano su una sedia a rotelle per i successivi 15 mesi.
Quando si riprende e ricomincia una vita normale, chiede di riprendere gli allenamenti in palestra. Ovviamente incontra qualche resistenza di medici, ma tanto insiste che ricomincia ad allenarsi. Ora proviamo ad immaginare la situazione, sei nel pieno del tuo sviluppo fisico, ti devi fermare per 15 mesi, senza muove un muscolo, quando riprendi non è che hai tutta quest’armonia nei movimenti. Però il ragazzo sembra davvero bravo e probabilmente deve sentirsi più leggero e a suo agio lassù tra le sbarre, sollevato da terra. Lo sport che ha scelto non è proprio uno sport statico, qualche caduta anche se protetta da tappetoni in gommapiuma, ti capita di doverla subire. Insomma, se vuoi migliorarti la caduta è un rischio da mettere in conto.
Kieran cade e ricade più volte, fino a che gli capita purtroppo una caduta importante; durante un allenamento sfugge alla presa della sbarra e si procura un grave trauma cranico che lo riporta nuovamente su una sedia a rotelle: lesione cerebrale permanente e danni interni ad un orecchio che compromettono le sue capacità di equilibrio e coordinazione. Resta fermo per tre anni, TRE ANNI. Nel periodo di riabilitazione, Kieran ha dovuto praticamente riacquistare diversi semplici movimenti della testa che dopo il trauma, non riusciva più ad eseguire. Quando si riprende chiede e insiste ancora per tornare a praticare la sua ginnastica artistica. I medici questa volta si mettono un po’ più di traverso, quasi con naturalezza sconsigliano al ragazzo e ai genitori di ricominciare. Il problema e la priorità non sono più la ginnastica artistica, dicono, il problema è che Kieran potrebbe non camminare più come prima se non con qualche supporto. Ma non c’è nulla da fare, l’amore per quello sport è talmente grande che lui vuole provare a ricominciare. (Piccola parentesi: qui mi permetto di dare un 10 e lode ai genitori, per l’apertura mentale che hanno dimostrato e anche ai suoi istruttori che alla fine gli concedono di riprendere gli allenamenti in palestra) Ora, Kieran è nato nel 1989, con tutto quanto sopra dovremmo essere intorno al 2004/2005 e lui dovrebbe avere tra i 14/15 anni. Le olimpiadi di Londra sono solo da lì a 8 anni e Kieran ricomincia praticamente ad allenarsi da zero.
Grazie a un impegno costante, inizia a vincere alcune gare nelle categorie Juniores, tra cui un 4° posto nel campionato Europeo juniores, in Grecia nel 2006. Ah! Non è che ora vada tutto liscio, in mezzo ci sono una serie di altri infortuni che tralascio. Tutto ciò lo porta a garantirsi il debutto nel campionato Europeo di ginnastica del 2010, ma un annetto prima si rompe il crociato anteriore del ginocchio e vabbè, quando è a sole sei settimane prima del debutto ufficiale, si rompe anche il crociato dell’altro ginocchio, così è costretto a saltare la manifestazione che lo avrebbe presentato ufficialmente nel mondo dei ginnasti che “contano”.
Avete idea di quanto possano contare le ginocchia per un ginnasta? Bene, lui si riprende dalla rieducazione di entrambe e un anno dopo, nel 2011, riesce finalmente a partecipare al campionato Europeo, dove strappa il biglietto per Londra 2012. Come detto all’inizio, Kieran non si qualificherà per nessuna delle finali, ma ha coronato il sogno che ha inseguito sin da bambino ed è stato il secondo ginnasta irlandese di sempre a qualificarsi per un’Olimpiade. Quattro anni dopo però si è ripetuto partecipando anche a Rio 2016 e diventando così il primo ginnasta irlandese a qualificarsi per due giochi olimpici.
Quando i miei figli mi hanno chiesto il significato della parola “resilienza” che avevano sentito a scuola, ho preso il mio tempo, mi sono seduto con loro sul divano e ho raccontato la storia di Kieran.