Rischi verticali!

Storie di sport e di atleti viste dalla prospettiva di un Project Manager.

Autore: Giovanni Lastoria | 3 May 2022

“Sì, sì, ho già messo tutto in tabella. Ho considerato quelli principali, diciamo quelli con probabilità e impatto più alti. Io partirei con questi, li presentiamo in riunione la settimana prossima e iniziamo così il progetto, comunque sono cose che abbiamo già fatto. Ci fosse sfuggito qualcosa, aggiorniamo la matrice. Nel caso se ne dovesse verificare qualcuno, ci assumiamo le conseguenze!”.

Quante volte ci è capitato di sentire o di fare affermazioni come quella sopra, quando ci siamo trovati a predisporre il piano di rischio per un progetto. Presentandolo così, non è che proprio trasferiamo tranquillità al nostro interlocutore. Il messaggio che si trasmette è probabilmente di una certa superficialità nella gestione, più vicino all’aver completato il compitino per soddisfare “la procedura” che a una vera presa di coscienza del tema.

Se dobbiamo dirla tutta, la gestione del rischio è una di quelle attività del project management a cui non viene sempre data la dovuta attenzione, in diversi casi non viene nemmeno considerata. Gli stakeholders di un progetto, si sa, hanno spesso obiettivi e priorità differenti; quindi, parlare a un sales di gestione del rischio di progetto potrebbe essere visto come una perdita di tempo, mentre se ne parliamo a un team di nerd supertecnici i rischi non esistono, per loro esistono al più affascinanti problemi da risolvere. Ovviamente molto dipende anche dal progetto: in alcuni molto complessi il risk management è un must, in altri invece è più un proforma, per alcuni poi non se ne parla nemmeno. A volte ci sono talmente tante pressioni affinché il progetto inizi che “non c’è tempo!”, altre volte il PM non ha il giusto livello di esperienza. Ci sono poi situazioni in cui un risk plan non lo si predispone perché “ne abbiamo già fatti di progetti simili!”. Insomma, il risk management è una di quelle task che, per farla breve, non risulta simpatica a molti.

Se però ci si trova a gestire progetti dal nome come “Infinite Jest”, “Follie di fine estate”, “La lunga attesa” o anche “Portami via” …e beh! Qui le cose cambiano decisamente, perché l’attenzione che viene riservata alla gestione del rischio diventa massima.

Se vi piace camminare su sentieri, in montagna, potrebbe capitarvi di leggere, più spesso ai piedi di una parete rocciosa, uno dei nomi che ho citato sopra. Sono, solitamente, i nomi di battesimo che i climber danno alle vie da loro aperte. A sentire loro, quei nomi sono spesso quasi dei guanti di sfida (parliamo ovviamente di sana competizione sportiva). Sì, perché salire Infinite Jest, una via di 600 metri fino all'8b con il 7b obbligato è tutta un’altra cosa che completare Follie di fine estate che è solo 8a con un 7b obbligato. Farlo da primo è una cosa, farlo da secondo un’altra ed è ancora cosa diversa se si è i secondi a salire una via. Come sempre capita per qualunque disciplina sportiva, se ci si addentra nella filosofia e nei dettagli di una specialità, si scopre che esistono mondi inimmaginabili e spesso incomprensibili, se non agli addetti ai lavori. Persone come noi, ma follemente innamorate di uno sport da spendere tempo ed energie su aspetti e dettagli che ai più appaiono insignificanti, se non addirittura inutili.

L’arrampicata è uno di questi sport, affascinante ed emozionante per chi lo ha provato, è una di quelle discipline definite estreme. Fatta di molta tecnica, di forza sia fisica che mentale e come tutti gli sport estremi prevede inevitabilmente di prendere in considerazione rischi ad impatto davvero elevato.

Per cercare di entrare nella mente di un climber e provare a capire come vengono gestiti i rischi quando si apre una nuova via su una parete di roccia, ci siamo fatti aiutare da Fabio Palma.

Fabio è -ed è stato- diverse cose: è laureato in ingegneria nucleare, dopo una breve esperienza come ricercatore al CERN, ha poi lavorato in Philips prima come Project Manager poi responsabile marketing europeo, ma ciò non lo rendeva un uomo felice. La sua passione per la montagna nasce proprio in quel periodo, quando scappava letteralmente dall’ufficio e dal dress code formale non appena aveva del tempo a disposizione, per poi rientrare direttamente nel mondo del business al mattino, spesso ancora con qualche traccia di magnesite sulle mani. Ha aperto diverse vie di roccia estreme, in squadra con Matteo Della Bordella. Ah! Fabio è’ stato anche presidente dei Ragni di Lecco per due mandati. Poi ha scritto diversi libri sul tema dell’arrampicata in montagna e su metodologie di allenamento e ha un suo sito dove scrive regolarmente di sport. Ah! È allenatore di arrampicata sportiva e ha portato Beatrice Colli, una sua atleta a vincere il titolo mondiale di speed. Ah! Collabora con suo figlio, con cui ha aperto una società di produzione video e fa questa cosa, lui dice, nel tempo libero. Non so quanto duri una giornata di Fabio, ma ora è qui di fronte a me per parlare di gestione del rischio nell’arrampicata su roccia.

Ora, per chi non è per nulla vicino al mondo dei climber, aprire una nuova via significa, in pratica, passare diverse volte davanti ad una parete di roccia e chiedersi tutte le volte un qualcosa di simile a: “chissà come sarebbe salire lì sopra?!”.

Sono diverse le motivazioni che fanno nascere questa domanda. Potrebbe essere che su quella parete non ci sia mai salito nessuno, oppure che in molti sono saliti due metri più in là, ma a voi stuzzica quella sporgenza, quella nicchia o una cengia che si vede da sotto e allora: “chissà come sarebbe superarla!”.

Ecco, più o meno la molla che scatta è questa. Una volta che ci si convince che si può fare, bisogna passare poi alla pratica, il che vuol dire organizzarsi con un ammasso di corde, zaini, magnesite, scarpette, caschi, friends, nuts, rinvii e ovviamente il trapano, già perché per tracciare una via devi mettere una serie di spit lungo il percorso, mentre sei appeso magari a qualche centinaio di metri da terra. Spit che serviranno a te e a tutti gli altri che vorranno provare la stessa via in seguito.

Fabio Palma Climbing

Qui nascono diverse questioni filosofiche che accenno soltanto, per farvi entrare sempre un po’ più nell’ottica. C’è chi mette solo i spit essenziali, chi preferisce metterne di più, chi punta a non snaturare troppo la parete, chi invece si vuole sentire più sicuro e rende, secondo i primi, la parete come un formaggio coi buchi.

Fabio appartiene più alla parte degli essenziali, anche se ha sempre tenuto molto da conto la sicurezza.

Le sue risposte mi hanno lasciato diversi spunti di riflessione, evidenziando aspetti non così immediati anche per chi, come me ha provato questa disciplina anche se ad un livello molto, molto base.

“Beh! Per iniziare, diciamo che dobbiamo distinguere due aspetti completamente diversi della gestione del rischio nell’arrampicata, una prima fase diciamo più statica, riguarda tutta la fase di preparazione ad una nuova via, il secondo aspetto più dinamico quando sei già in parete e ti trovi a gestire una situazione di difficoltà.”

Gli chiedo di partire da questo secondo punto che è un ottimo parallelo alla gestione di una situazione critica all’interno di un progetto.

“Beh! Qui c’è già una grossa differenza tra gestire un rischio in parete e un rischio di un progetto in un’azienda e questa differenza è data dal tempo che in parete è praticamente nullo. Nella mia carriera di alpinista che è durata circa 6 anni, dal 2005 al 2011, mi sono trovato una ventina di volte in situazioni di difficoltà e di queste solo 5 o 6 sono state delle vere situazioni impreviste, un paio di queste devo dire davvero pericolose.

Lì il tempo si annulla, hai uno, due secondi per prendere una decisione, perché magari anche se hai ponderato tutto, ma in quel punto hai fatto un passo più lungo della gamba, come si dice. E allora, in alcuni casi, hai anche la possibilità di tornare indietro di quel passo, ma io aprivo delle vie volutamente difficili e pericolose e questa possibilità non c’era quasi mai. Quindi sei lì, magari sei stanco, fisicamente, perché senti i muscoli delle braccia che iniziano a cedere o mentalmente, perché sono diverse ore che sei in parete e in quei pochi attimi devi prendere una decisione, perché altrimenti il rischio è il fallimento, potresti cadere e non ti succede nulla, ma potresti cadere male, colpire una cengia e farti molto male o anche morire.

In queste situazioni quello che mi ha sempre salvato è stato il mio livello di allenamento elevato, la padronanza della tecnica e un pattern motorio su cui sapevo di poter contare. Quindi stiamo parlando, se vuoi, di un PM molto competente dell’oggetto del progetto che sta gestendo. Questo è un po’ il punto debole della professione del PM che si trova molto spesso a gestire dei progetti di cui non sempre conosce nel dettaglio le tematiche.

Qui se vuoi hai un’altra chiave di lettura, nella gestione di un progetto in azienda il PM può molto spesso recuperare ad un errore, attraverso il confronto con il team, rilavorando un out-come o rinegoziando un risultato, in parete questo non avviene. Dal punto in cui sei arrivato puoi solo andare avanti. Anche il poco tempo per decidere può essere un paragone significativo, il PM può gestire una situazione di rischio attraverso riunioni, confronti con gli stakeholders, ma molte volte questo vantaggio si trasforma in un aspetto negativo, perché spesso c’è un’esagerata tendenza a parlare, discutere, fare meeting e quindi a stare fermi e a non prendere decisioni. In parete non puoi stare fermo, se lo fai, in brevissimo tempo i tuoi muscoli si stancano e cadi, quindi devi decidere in fretta. Quindi qui il parallelo è: capire quando su un progetto si sta perdendo tempo e quando è invece davvero necessario fermarsi per discutere e prendere una decisione.”

Chiedo a Fabio di raccontami della situazione più pericolosa in cui si è trovato e come l’ha gestita.

Fabio Palma's Climbing map

“Si, è stato quando abbiamo aperto una delle vie sul Wendenstocke in Svizzera ed è una delle situazioni in cui ho imboccato un percorso leggermente diverso da quello che avevamo ipotizzato. Sai a volte lo fai, studi una via, ma quando sei su vedi un appiglio che non potevi vedere in fase di studio della parete o lo vedi diverso da come lo pensavi e quindi segui il tuo intuito, ti assumi il rischio, insomma. Un rischio sempre ponderato, mai estremo, non era nel mio stile, però può succedere che poi ti ritrovi in una situazione di difficoltà. Proprio per recuperare una situazione imprevista ho preso una direzione che mi sembrava buona, ma che mi ha messo in condizione di poggiare la gamba sinistra su un appiglio veramente minimo. Un po’ per la stanchezza, un po’ perché eravamo un in ritardo sulla tabella di marcia e stava arrivando il temporale, altro rischio che per altro avevamo previsto, ho sentito il polpaccio che iniziava a tremare e la sensazione di equilibrio che stava diventando precario. Dovevo subito trovare un altro punto di appoggio, ma non ne vedevo nelle vicinanze, proprio perché un attimo prima avevo scelto una direzione leggermente diversa da quella studiata. A quel punto, non potevo cadere perché ero troppo lontano dall’ultimo rinvio…ah! ricordami che dopo ti parlo del paradosso del rischio. Dicevo, ero in una condizione mentale moderatamente tranquilla e ho dovuto prendere la mia decisione in poco più di, forse, due/tre secondi e la decisione è stata di tentare un gesto tecnico che di solito fai quando sei in sicurezza, un lancio dinamico.”

Fabio mi racconta del lancio dinamico, così, mentre sorseggia la birra che ha di fronte. Mentre lui racconta, parte della mia mente inizia a elaborare un pensiero parallelo sul termine lancio dinamico: in pratica vuol dire staccarsi completamente con mani e piedi, lanciandosi, per agganciare qualcosa più in alto da qualche parte. Rimanervi appesi con le mani e poi ritrovare la posizione con i piedi, il tutto mentre sotto hai tre quattrocento metri di vuoto, una parete di roccia su cui, se sbagli, andrai sicuramente a sbattere e certo la corda e i rinvii che ti sostengono. Il pensiero parallelo si ricongiunge con le parole di Fabio e quasi nello stesso tempo esclamiamo: “…roba che se sbagli ti schianti!”

“Lì, ciò che mi ha aiutato è stata la freddezza del pensiero, rimanere per quanto possibile lucidi, non andare in panico con 140 battiti al minuto, ti aiuta a prendere la decisione (probabilmente quella giusta), ma soprattutto a metterla in atto con consapevolezza. Certo una volta arrivato e ritrovata una condizione di stabilità e sicurezza, l’adrenalina si scarica e poi pensi anche per giorni interi a quello che hai rischiato, però preparazione, conoscenza e freddezza nell’affrontare tali situazioni, sono fondamentali.”

Ricordo a Fabio del paradosso del rischio

Ricordo a Fabio del paradosso del rischio.

“Già! Considera questo, tu fissi un rinvio e ci fai passare la corda e così sei in sicurezza, se cadi quel rinvio ti salva. Poi devi proseguire, fino al prossimo rinvio. Bene, tu più ti avvicini al rinvio successivo, quindi alla tua sicurezza e più sei a rischio, perché se cadi appena prima hai una lunghezza della corda di caduta maggiore. Quindi il messaggio potrebbe essere quello di non mollare la concentrazione appena prima di affrontare una situazione di rischio, ma di superarla pienamente prima di permettere alla tua mente di ridurre l’attenzione e scaricare quella tensione che ti consente di non commettere l’errore!

Intanto io sto scorrendo le foto che dovrò poi allegare all’articolo e vi assicuro che mentre sento le parole di Fabio, riesco a vedere e sentire i gesti che hanno poi portato a quei fermi immagine. Ritrovo anche io qualche vago ricordo di sensazione. Trovarsi nel vuoto, toccare una parete di roccia, osservare il paesaggio da una prospettiva unica, sono sensazioni davvero molto particolari che ti restano comunque dentro anche dopo diversi anni. Scatta un sospiro che annego con un sorso di birra e chiedo a Fabio di parlarmi della pianificazione del rischio, quindi la preparazione all’apertura di una nuova via..

“Sì, abbiamo poi l’altro tipo di gestione di rischio che definirei di preparazione e lì io e Matteo Della Bordella eravamo in quegli anni una coppia fantastica. Siamo due ingegneri, quindi ci siamo trovati a meraviglia e ci siamo inventati un modo per preparare l’apertura di una via, molto meticoloso e preciso al grammo o al centimetro, direi. Quando vuoi aprire una nuova via, devi considerare tutti gli aspetti dell’impresa che stai iniziando, senza sottovalutarne nessuno. Si parte dallo studio della via fatta di minuziose osservazioni con il binocolo, c’è poi il disegno e lo studio del percorso che si pensa di seguire e le possibili alternative, poi devi pensare a cosa portare in parete. Quante corde, quanti attrezzi (rinvii, nuts, spit, trapano), poi ci sono i rifornimenti barrette energetiche, cibo già pronto, fornellini e soprattutto acqua. Se poi la parete è particolarmente alta, potresti metterci più di un giorno a completarla, quindi devi portarti anche tutta l’attrezzatura per dormire in parete, non solo ma anche studiare bene dove fare sosta e in che tempi arrivarci. Tutto va calcolato al grammo, perché è del peso che devi poi portarti su, con le tue forze. Quando hai definito la via e tutto il resto, devi poi prevedere i rischi dovuti al tempo di scalata e alle condizioni atmosferiche. Molte volte sapevamo che un temporale si sarebbe verificato alle cinque di pomeriggio, per cui si diceva: ‘…quindi, Matteo, per le 2 dobbiamo essere qui, alle tre e mezza, massimo, dobbiamo aver superato questo punto…’.

Se trovi un intoppo che ti ritarda, rischi di ritrovarti in quel temporale mentre sei ancora in parete, il che vuole dire praticamente trovarsi a stare sotto una cascata, non proprio il massimo. Considera che io e Matteo non eravamo i più forti tecnicamente, ma abbiamo fatto della fase di pianificazione e di gestione dei rischi. La nostra arma vincente e grazie a questa tecnica siamo riusciti a fare cose che a tutt’oggi al mondo nessuno è ancora riuscito a replicare.

Matteo poi ha esportato questa metodologia anche all’estero e lì le cose cambiano ancora. Sai noi abbiamo aperto vie che prevedevano qualche ora di cammino per raggiungere la base, quando eri su, riuscivi a vedere la tua macchina e questo in un certo senso ti tranquillizza, perché dici : ‘beh! Male che vada devo farmi solo quel po’ di strada per tornare indietro!’. Matteo è stato in Patagonia, nell’artico, a 12 giorni di cammino o a qualche giorno di kayak dal primo villaggio; lì se non prevedi in modo preciso, la quantità di cibo e acqua che ti serve non solo per la via in parete, ma anche per raggiungere il posto e per tornare indietro, ci lasci le penne. Non puoi nemmeno sperare che arrivi l’elicottero del soccorso, perché non c’è nessuno e tu non sei uno da Team Red-Bull.”

Se provate per un attimo ad immedesimarvi in uno di questi scenari, possiamo dire di essere sicuri che con la nostra matrice di gestione dei rischi, ci potremmo sentire tranquilli? Provo ad immaginare certe aree del mondo così isolate, devono essere caratterizzate da un silenzio a cui nessuno di noi è abituato. Si sentirà certamente il vento, una pietra che cade o il ghiaccio che si rompe, ma sono abbastanza certo che se noi ci trovassimo in quei luoghi, a gestire una situazione di rischio non previsto, i nostri pensieri sarebbero molto “rumorosi” da romperlo quel silenzio. Quella natura selvaggia che avremmo intorno, sta semplicemente vivendo, non ha nulla a che vedere con la nostra sfida di un uomo che sta provando ad ampliare i suoi limiti e la sua conoscenza, lei va avanti tranquillamente per la sua strada, seguendo il suo progetto, siamo noi che abbiamo voluto immergerci dentro e il nostro progetto può avere successo solo se abbiamo previsto tutte le situazioni (o le più probabili) che possono mettere a rischio il nostro obiettivo, se ci siamo preparati adeguatamente e se abbiamo la freddezza di prendere decisioni veloci e corrette, perché ritrovarsi in una situazione di rischio non previsto lì, corrisponde alla soluzione “sopravvivere”, nel suo reale significato.

Fabio Apetura

Ed è proprio su questo punto che rivolgo l’ultima domanda a Fabio, quella che tutti solitamente fanno ad un climber: “Ma perché una persona pur sapendo di mettere a rischio la propria vita, si spinge a provare certe sfide così al limite?”

E infatti Fabio non me lo dice, ma si vede che questa è la domanda che, chissà quante volte gliel’avranno fatta, proprio non gradisce. La risposta che mi dà però è come quell’appiglio che ti regala grande soddisfazione quando lo superi:

“Beh! Gianni, innanzitutto, la domanda va contestualizzata. Certo l’arrampicata è uno sport a rischio e lo è ancora di più oggi, perché negli ultimi anni c’è stato un notevole aumento dei praticanti, non solo, sono notevolmente migliorate le tecniche e le tecnologie a supporto, per cui oggi si provano cose che 10 anni fa nemmeno ti sognavi di avvicinare. Però a volte mi capita di pensare a quando lavoravo in azienda a quante persone vedevo finire di lavorare alle nove di sera, con espressioni davvero tristi negli occhi. Persone che mettevano a rischio la tenuta delle loro famiglie, del loro fisico che a cinquant’anni aveva già diversi problemi seri anche in quei casi scegli di mettere a rischio qualcosa, solo che l’effetto non ce l’hai subito come nell’arrampicata, ma dopo anni. Ti faccio un altro parallelo, pensa alla Cappella Sistina. Michelangelo ha passato anni e anni per completarla e ne è uscito devastato nel fisico, schiena a pezzi. Pensa per anni piegato a dipingere il soffitto di quello che nemmeno si sapeva sarebbe stata la Cappella Sistina. Pensa se avesse detto: “…ma chi me lo fa fare!”. Oggi non avremmo quel capolavoro che tutti ammirano. Allora io mi dico, meno male che ci sono certe persone, perché ci fanno vedere che si possono fare certe cose, poi non è detto che tutti debbano o possano fare lo stesso, ma puoi grazie a loro almeno sapere che si può e puoi godere e ammirare i risultati a cui sono arrivati!”

Io ho sempre visto la pianificazione dei rischi come la capacità di guardare “un po’ più in là” e in effetti se ci fermiamo un po’ a riflettere, molte volte abbiamo bisogno di qualcuno che abbia questa capacità, questo dono. Qualcuno che sia il primo ad aprire una nuova via, perché questo ci permette di crescere nella nostra professione come PM, ma anche come persone. Alla fine, chi ha la capacità di aprire una nuova via, non fa altro che trasferire una nuova conoscenza al suo secondo di cordata, in modo che quando toccherà a lui fare da primo, possa fare lo stesso e farci vedere “un po’ più in là!”